Il 7 giugno 2022 i negoziatori della presidenza del Consiglio e del Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico provvisorio sul progetto di direttiva relativa a salari minimi adeguati nell’UE. Una volta adottata in via definitiva, la nuova normativa promuoverà l’adeguatezza dei salari minimi legali e contribuirà in tal modo a garantire condizioni di vita e di lavoro dignitose per i lavoratori europei.
Ci chiediamo se con questo accordo si potrà ristabilire almeno un po’ il senso vero dell’articolo 1 della Costituzione
*(Nel titolo abbiamo volutamente scritto Paese e non Repubblica Democratica, dato che lo scenario governativo degli ultimi anni parla molto poco di democrazia e di Repubblica).
L’UE intende migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone. Salari equi che consentano un tenore di vita dignitoso costituiscono uno dei principi del pilastro europeo dei diritti sociali.
A tal fine, anziché fissare un salario minimo comune europeo, l’UE intende istituire un quadro per salari minimi adeguati in Europa.
Infatti la direttiva relativa ai salari minimi non costituisce un’unica soluzione valida per tutti. Al contrario, tiene conto delle diverse tradizioni e dei diversi punti di partenza e rafforza il ruolo delle parti sociali e della contrattazione collettiva.
Infatti la direttiva relativa ai salari minimi non costituisce un’unica soluzione valida per tutti. Al contrario, tiene conto delle diverse tradizioni e dei diversi punti di partenza e rafforza il ruolo delle parti sociali e della contrattazione collettiva.
Ci chiediamo: con questa prerogativa, quanto in Italia le cose miglioreranno dato che i salari non crescono da trent’anni?
In Paesi come la Germania e la Francia gli aumenti salariali nel frattempo sono stati a due cifre, in Italia a differenza di altri 21 Paesi dei 27 non esiste il salario minimo legale.
Si pensa che se lo introduciamo anche da noi, il lavoro non sarà più sottopagato come adesso e magari si potrà anche procedere a indicizzare i salari più bassi per via quasi automatica. L’assioma però non è corretto, nasconde alcuni dati sottaciuti su cui riflettere e fa commistione di piani di analisi.
Il primo dato da mettere in luce è che il salario minimo legale sarebbe in ogni caso applicabile solo ai lavoratori subordinati, i quali in Italia sono già coperti dalla contrattazione collettiva.
Precariato, false partite Iva mono-committenti, stagisti, apprendisti, lavoratori in nero, giovani o meno giovani professionisti al di sotto dell’equo compenso non sono interessati dall’arrivo di questo plafond di riferimento.
E anche tutti gli altri, se pagati meno, dovrebbero in ogni caso istruire una causa per ottenere l’applicazione del parametro di riferimento legale. Che oggi nella giurisprudenza viene stabilito prendendo a parametro i minimi contrattuali di settore firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi ,in virtù dell’applicazione dell’articolo 36 della Costituzione che parla di retribuzione «sufficiente» e «proporzionata».
I sindacati sono sempre stati contrari al salario minimo che avrebbe dovuto essere introdotto con un decreto attuativo in base al Jobs Act. Decreto che poi non è stato mai emanato né dal governo Renzi né dagli altri che si sono succeduti finora. Mentre il Jobs Act ha comunque reso possibili e legali decine e decine di tipologie contrattuali anche atipiche e a chiamata, anche di poche ore, a somministrazione.
Contratti legali che precarizzano le condizioni di lavoro ma in ogni caso offrono paghe orarie relativamente più alte anche dei minimi tabellari.
Quando si parla di lavoro fragile, povero, cioè di chi pur avendo un lavoro continua a essere povero, si parla di un fenomeno dai contorni ancora meno netti, in gran parte caratterizzato da poche ore di lavoro retribuito e da part-time involontari, che riguardano il 40 per cento della forza lavoro femminile e il 25 per cento di quella maschile.
In questi casi si può anche fissare una paga oraria più alta ma nel caso il lavoratore la rivendichi senza un supporto di tutela, legale o sindacale, è possibile che il datore di lavoro reagisca diminuendo il volume delle ore pagate “al bianco”.
In Italia sono registrati al Cnel circa 900 contratti di lavoro, tra quelli siglati dalle organizzazioni più rappresentative – Cgil, Cisl e Uil – e quelli detti “pirata” firmati da sindacati “gialli” o di comodo. Ma a parte eccezioni che si contano sulle dita di una mano, tutti i contratti, siano essi pirata o no, presentano minimi tabellari più alti dei 9 euro l’ora, che è la soglia fissata come possibile minimo legale.
Da noi la bandiera del salario minimo sembra destinata a essere posta sul tavolo della campagna elettorale per le legislative del 2023.
Il ministro del Lavoro però non appare disponibile a utilizzare argomenti invisi alle forze sindacali e persino a Confindustria. E si attiene al momento a una proposta, per altro ancora non formulata neanche in bozza, che prende a riferimento il trattamento economico minimo contenuto nei contratti maggiormente e comparativamente più rappresentativi, cioè i minimi tabellari: al momento sembrerebbe niente salario minimo dunque per l’Italia.
Se ne continuerà a discutere nei prossimi giorni, crisi di governo permettendo, con la speranza che si trovi una quadra sul salario minimo per far sì che tutti i lavoratori italiani abbiano diritto a un giusto stipendio, specialmente adesso che tale necessità si fa sempre più impellente a causa della perdita di acquisto delle retribuzioni dovuta all’inflazione.
Alla luce di ciò, con la crisi che cresce e il lavoro che scarseggia, sembra davvero lontana la possibilità di equipararci alle altre nazioni europee.